Dialetto, la cultura della gente

Il dialetto: una lingua di cultura.
Il dialetto, o detto più dottamente il vernacolo, ultimamente si è tornati a chiamarlo lingua. A ragione, perché fondamentalmente, il vernacolo, una lingua lo è.

Il dialetto, i mille dialetti sono lingue come struttura, con una loro grammatica e una fonetica distintiva. Ma lo sono anche per la storia e la valenza “umana” che si portano dietro. Perché, se la parte “pubblica” e “commerciale” dell’esistenza ormai è parlata in italiano, chi ancora conosce la “lingua del focolare” non riesce a non usarla quando deve parlare di sé, dei suoi sentimenti, dei suoi ricordi, dei suoi affetti e della sua memoria.

Questo è il valore del dialetto, cioè il dono di concedere una sfera privata in più.

Resta però il fatto che il vernacolo, oggi, al di là del nome di lingua e di tanti annunci buttati a caso,  rischia comunque di essere ucciso sia dalla globalizzazione, ma anche da chi, di esso ne fa luogo comune, da chi cioè ritiene che nominarlo, usarlo, basti a tenerlo vivo.

In realtà una banalità detta in dialetto è esattamente uguale a una banalità detta in italiano.

Quello che dovrebbero rimpiangere i cultori del vernacolo è che quasi nessuno si è impegnato a creare e portare avanti una cultura (parlata e scritta) con la lingua del posto.

Non bastano i nomi delle località scritti sul cartello all’inizio delle città..Sono mancate e continuano a mancare una vera e propria volontà di supporto qualitativo delle  letterature dialettali: narrativa, poesie o testi teatrali. L’idea che un’opera in dialetto debba sempre far ridere, essere farsesca, basata su trame leggere e di doppi sensi, bassamente popolari insommma, trattare solamente gli aspetti ridicoli della vita, è ridurlo a qualcosa che non merita, e in fondo compiere verso di esso un velato razzismo culturale.

Il vernacolo è sempre stato la parola e il discorso del popolo, del “locale”, del particolare” e ha rappresentato i suoi momenti sereni, ma anche i suoi drammi e le sue fatiche. E’ un fatto che le ultime parole dei caduti in guerra non erano urlate nella “lingua” della patria per cui combattevano, ma in quelle del loro piccolo paese. Dare dignità al dialetto, sarebbe farlo tornale testimone e strumento di arte e racconto, e questo sarebbe la vera vittoria di quelli che continuano a chiamarlo (giustamente) lingua.

Noi con il BrianzaMagazine vogliamo provare a far crescere la concezione del dialetto, e cominciando a pubblicare qualche lavoro di Alessandro Bogani, un bravo autore locale.

Sono righe belle, che magari qualche volta fanno sorridere, ma anche fanno pensare, arricchiscono. Speriamo sia un buon inizio per riscoprire la lingua del nostro territorio.


OÈI TI DÀM A TRÀ


M’hann robà el mè dialett.

A sett’ann, in colleg,

a vundes in officina, tucc trevisan,

a dodes i mèe, gh’hann cambia paes

lì, tucc i dialett, men el milanes. 

Poeù l’offizzi statal 

indove se parlava per forza in italian.

Me restava la sorgent 

denter cà, mè mader,

ma via lèe, nient.

Mè vegni òna voeùja

e òn magon, quand,

vùn in strada,

el m’ha dìi:

“oèi ti dàm a trà”.

Gh’ho cìappà la péna

e gìo a scriv

per minga desmentegàss. 


TU ASCOLTAMI


Mi hanno rubato il mio dialetto,

prima da bambino in collegio,

poi a undici anni in officina

in mezzo a tutti trevigiani;

a dodici con la famiglia ho cambiato paese,

il nuovo composto da tutti emigranti;

si parlavano tutti i dialetti escluso il milanese.

Poi il lavoro in un servizio statale

dove vigeva l’italiano.

Mi restava solo la sorgente,

la casa, mia madre,

ma il dopo lei nulla.

Del dialetto mi è tornata una voglia matta

e un magone immenso

quando un signore, in strada mi ha chiesto:

“Scusa tu, ascoltami” in dialetto milanese.

Subito ho preso in mano la penna

e mi sono messo a scriverlo,

per non dimenticarlo ancora.


SFOGÀSS


SE I MÈ POESÌI

FUSSEN DE CARNA

A VÒLT I GRONDANARIAN DE SÀNGH.

NATURALMENT, GÒTT A GÒTT


ESTERNAZIONE


Se le mie poesie

fossero fatte di carne,

qualche volta verserebbero sangue.

Naturalmente, goccia a goccia.