La Radice brianzola del calcio moderno

Anni settanta, parola d'ordine libertà. Lui era un sergente, ma seppe esprimere sui rettangoli verdi italiani la fantasia calcistica che arrivava dall'Olanda. In pochi anni cambiò il calcio italiano. in pochi anni ricreò una leggenda granata. poi come tutti gli innovatori, non rimase per molto in alto. Ma ormai il mondo del pallone, grazie a lui, era cambiarto interamente.

Dicono che Gigi Radice non stia bene. Ci sono voci che soffra di un male balordo, quello che cancella la memoria di ciò che hai fatto in gioventù, e che purtroppo nel corpo dell’allenatore degli occhi di ghiaccio va a sommarsi alla qualche magagna di vita che già si portava appresso. Quel che è certo, è che da un po’ di stagioni, i suoi “ragazzi”,  quelli del secondo “grande Torino” della storia calcistica, i granata degli anni settanta che si trovavano nella sua villa di Monza per il solito pranzo dove si mischiavano gli umori dell’amicizia,  del passato e della memoria, non riescono più a portarlo fuori.  E’ che, nella vita reale, non funziona quello che dice Francesco Guccini del ferroviere, che cioè tutti gli eroi rimangono giovani e belli. Perché nella vita anche le persone famose, gli innovatori di gioventù, prima o poi invecchiano. E la parabola di Gigi Radice ne è un po’ un simbolo. Ma se valutassimo le cose nel modo giusto, adesso toccherebbe  a noi,  e man mano che Gigi Radice perde la memoria personale di quel che era, oggi saremmo noi che per giustizia dovremmo trovare la voglia di ricordare quello che come tecnico ha rappresentato nella storia del calcio, cioè raccontare l’uomo che seppe trovare le dosi giuste per cucinare in salsa italiana il gusto Orange, quel calcio olandese che aveva colto in campo tecnico- sportivo l’impronta libertaria del ’68, rivoluzionando l’universo del pallone.

Anni settanta. La parola d’ordine era libertà. Anche la parola d’ordine per il calcio olandese, fu libertà. Ma se per i “movimenti” politici il termine libertà fu spesso un assunto vuoto, per l’Ajax e poi la nazionale divenne termine pieno. Libertà nella vita e libertà nella tecnica, dosi che rivoluzionarono il gioco del pallone. Il credo arancione, fra mogli e figli nei ritiri,  portieri che facevano i difensori e stopper che avevano i mezzi per diventare alla bisogna centravanti, si può immaginare quanto, nella sostanza, sbalordì l’immaginario del calcio, anche se in realtà la società del pallone era già altra rispetto al calcio dai pali quadrati e dei tifosi in viaggio sui torpedoni del decennio prima. Certo, quei cambiamenti “locali” diventarono rivoluzione solo quando l’Olanda trovò una generazione di autentici fuoriclasse e riuscì ad innestarla nelle idee innovative di un vecchio: Rinus Michel.

Ma Gigi Radice, da Cesano Maderno, Brianza, che c’entra con i tulipani?

Beh, lui tutto sommato fu il Michels italiano, anche se un po’ più negli effetti che nella tecnologia, perché lui nella sostanza libertario o liberale, non lo era granchè, tanto che si meritava l’appellativo di “sergente”.

Comunque il suo Torino, fu per alcuni anni una squadra capace di dare l’immagine di un gioco libero, un undici che divenne qualcosa di diverso anche nell’immaginario collettivo, quasi esprimesse una diversità “politica”, essendo una identità del tutto torinese capace di vincere, in casa addirittura contro la Fiat.

Come nacque quel Toro “giovane”? Beh, la molla iniziale venne da Orfeo Pianelli, un “vecchio” dall’istinto innovatore, che decise di comprare il Torino e dargli una chance seria di rinascita cercando vie nuove. Cominciò comprando giocatori estrosi, adatti ad un calcio diverso, guidati inizialmente da Giannoni, che nella città della mole fu il primo a cercare un “nuovo” football, e poi da Radice che ne scrisse l’apoteosi.

Gigi Radice, che vediamo a parte come calciatore, anche per la successiva carriera d’allenatore era partito dalla sua brianza. Fare il tecnico, comunque, non era nelle sue intenzioni. Dopo l’infortunio al ginocchio che comportò lo stop alla carriera, si stava guardando attorno, pensando magari ad una vita lontana dai campi di calcio, da assicuratore, quando era venuta la chiamata della squadra della sua “patria”, il Monza, che andava cercando un tecnico.

Radice davanti al richiamo della sua terra, non aveva potuto, saputo e voluto dir no.

E quel Monza che in porta aveva Luciano Castellini, un portiere che guarda caso ritroverà a Torino, era un undici in crescita che già l’anno prima avena riscoperto la parola vittoria con la riammissione alla B. Radice fa bene, anzi benissimo se si considera che era un debuttante. A rovinare la festa è il Varese di un altro che poi ritroverà a Torino, ma guarda caso da nemico, sponda bianconera, ovvero Bettega che gli segnerà in faccia il goal “decisivo” nella partita “decisiva”. Così per qualche briciola di classifica, la promozione in A non venne ma il salto di categoria rientrerà comunque a breve nello score di Radice. Basterà aspettare solo un paio di stagioni, cioè che Gigi, dopo una parentesi a Treviso, giunga a Cesena.

Già lì, nella città romagnola, Radice incomincerà a scrivere un calcio nuovo, fatto di pressing, ritmo, versatilità e interscambiabilità dei ruoli. Lo mutuerà dal basket, perché Radice, virtù dei giovani e degli innovatori è sempre stato capace di guardare oltre gli steccati della sua parrocchia. Così nascerà il suo calcio frenetico ed asfissiante, che porterà anche a Firenze, la nuova meta dopo la promozione cesenate che per lui fu anche la prima serie A, in una “viola” che si arrovellava nell’eterna diatriba fra vecchio e giovane, nel caso Picchio De Sisti e Antognoni.

Gigi Radice, manco a dirlo, all’olandese scelse decisamente il nuovo, il giovane. Perché un’altra delle sue caratteristiche in carriera, si rivelerà quella di non amare i privilegi della classe o del rango. Dovunque andrà, non sarà mai in sintonia con i “vizi” di cui spesso agli estrosi godevano. Non per mancanza di rispetto nel “genio”, anzi uno (Claudio Sala) lo creerà direttamente, togliendogli le briglie del ruolo, ma perché lui alla parola genio voleva affiancata quella di umiltà. E non sempre ciò accade

Comunque, con la storia di Gigi, siamo arrivati al 1974, quando dopo un buon viatico venne cacciato dal presidente della Fiorentina Ugolini senza molte spiegazioni, fatto doppiato dalla squadra gigliata molti anni dopo con un altro presidente, Cecchi Gori, e in entrambi i casi sarà accompagnato da motivazioni gossip che comunque, vere o no, valgono più per i rotocalchi che per il calcio. Fuori dalle mura gigliate, Radice sarà chiamato en passant  a salvare il Cagliari, e lo farà, essendone però anche qui cacciato, forse perché in sardegna si era ancora troppo ancorati all’idea dell’intangibilità delle glorie della squadra scudettata che comunque, come la storia poi disse, era in irreversibile declino. Il 1974 comunque, fu anche l’anno dei mondiali tedeschi, quelli in cui l’Olanda non vinse, ma lo stesso seppe sbattere in faccia al mondo la sua impressionante novità. Radice in quei panni laverà il suo credo dirigista, innestandoci i sentimenti olandesi. Sarà questo il background  culturale e personale che richiamerà l’attenzione del creativo Orfeo Pianelli, che lo sceglierà per sostituire Giagnoni, passato al di là del Ticino, chiamato dal mito della grande squadra, il Milan.

 “Il calcio moderno è equipe, meriti e colpe vanno divisi in parti uguali. L'allenatore ha un compito importante ma più durante la preparazione alla partita, che sul campo. Alla domenica capiterà due o tre volte l'anno di decidere il risultato con la tattica, di solito ci si limita a raccogliere i frutti di come si è operato durante la settimana. L'allenatore deve scegliere, tenere uniti i giocatori e capirli dal punto di vista umano. Comunque i protagonisti restano sempre i giocatori. A decidere le partite sono sempre loro. E per questo dico che lo scudetto l'hanno conquistato prima di tutto i giocatori del Torino.” Questo è il sunto dell’annata granata 1975-1976 secondo Gigi Radice.

In realtà, lui ci mise tantissimo. Innanzitutto l’aver interpretato in altra maniera, rispetto ai precedenti tecnici, l’estro di un altro brianzolo, Claudio Sala. Gli tolse le briglie del ruolo,  lasciandolo libero all’olandese e concependo un nuovo modo  di attaccare le difese statiche del calcio italiano. Ma quell’anno, per battere “l’oggettività” della Juve degli Agnelli, ci volle anche tutta la sua capacità di imporre agli undici  il suo ideale di sacrificio, e perfezione. Un episodio è esempio di ciò, e leggenda: quando giusto prima dei festeggiamenti per lo scudetto, trovò il modo in campo di rimbrottare Mozzini, per il suo autogoal che era costato la vittoria (inutile) nella partita finale. Era così, Gigi Radice allenatore. Un uomo, come detto, attento anche alla società. Ai suoi moti. A tutto ciò che avveniva anche al di fuori dell’illusione-stadio. Di lui, è spesso passata la fama di amante della vita. Lo è stato probabilmente, e magari a volte anche oltre i limiti. Quelli erano gli anni giusti. Ma per lui, e la sua intelligenza,  parlano i dati. Un giorno di fine anni di piombo, gli fu chiesto come avrebbe combattuto il terrorismo. Non si sottrasse alla domanda. “Con i mezzi della democrazia…Non bisogna perdere la testa, bisogna opporre con fermezza i metodì democratici della società e si vince”.

Gigi Radice, da Cesano Maderno fu anche questo, immaginatevelo oggi un allenatore del calcio miliardario che osa esprimersi sulla politica, altro che il bau bau sullo sproloquio di Celentano a San Remo. Ma quelli erano altri tempi, e a noi non resta che dargli onore e dire che invece,  probabilmente, ha ragione Guccini, e vale anche per Gigi Radice, se dai a loro la memoria certi eroi restano sempre giovani e belli”…